Il 23 maggio 1982, nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno moriva in una casa di riposo nel comasco, Enzo Emilio Galbiati, l’ultimo comandante della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Vediamo ora la biografia completa di uno degli uomini più potenti del periodo fascista, personaggio controverso in quanto come vedremo nel post, aderì al fascismo sin dal 1919, salendo nella gerarchia fino a diventare nel 1941 Capo di stato maggiore della MVSN, ma tenne nelle ore cruciali seguite alla riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, un comportamento attendista decidendo di non intervenire dopo l’arresto del Duce, nonostante nei dintorni della Capitale la Milizia avesse consistenti forze militari.
Egli nacque il 23 maggio del 1897 a Monza; rimasto orfano del padre a dieci anni e della madre pochi anni dopo, fu affidato alla sorella maggiore Delfina. Nel 1916, mentre studiava ragioneria, fu richiamato sotto le armi, durante la Grande Guerra e dopo l’assegnazione al 23º Reggimento fanteria della brigata “Como” passò, su richiesta, al reparto reggimentale d’assalto, gli Arditi del 153º Reggimento fanteria “Novara”.
Promosso caporale nel luglio 1917, il 20 agosto dello stesso anno fu ferito su monte Faiti. Dopo la convalescenza in ospedale partecipò al corso per ufficiali di complemento a Ravenna, al termine del quale fu rinviato al fronte col grado di sottotenente, prima al 45º Reggimento fanteria “Reggio” e successivamente al 151º Reggimento fanteria “Sassari”, reparto nel quale concluse la vittoriosa Prima guerra mondiale.
Legionario fiumano, aderì ai Fasci di combattimento già nel novembre 1919, operando prima come squadrista e successivamente come comandante di squadra in Brianza. A causa delle sue azioni venne sottoposto a numerosi processi e rimase detenuto per 11 mesi, prima di essere assolto. Nell’ottobre del 1922, come comandante di tutte le squadre monzesi, ebbe il comando del presidio a difesa de Il Popolo d’Italia, nella cui redazione si trovava Mussolini, impegnato a dirigere le delicate operazioni della marcia su Roma.
Il 1º febbraio 1923 venne costituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e Galbiati vi aderì immediatamente entrando nei ranghi della forza armata dove confluirono tutti le squadre d’azione del Partito, con il grado di console, designato al comando della 25ª Legione “Ferrea” della sua città natale, Monza. A seguito del delitto Matteotti (10 giugno 1924) capeggiò i consoli della Milizia che, il 31 dicembre, si presentarono a Mussolini per chiedere un’accelerazione della “rivoluzione fascista”, minacciando di autodenunciarsi in blocco se il Duce non avesse agito in tale direzione.
Non convinti dalle assicurazioni di Mussolini i consoli stabilirono una “pentarchia”, che di fatto autorizzava le legioni comandate dai consoli che avevano partecipato alla protesta ad operare indipendentemente dal comando generale della Milizia. Mussolini così prese in mano la situazione e il 3 gennaio 1925 pronunciò alla camera dei deputati il discorso con il quale si assumeva «la responsabilità politica, morale e storica dell’accaduto, nell’inciso del delitto Matteotti», data convenzionalmente riconosciuta come inizio ufficiale del “regime fascista”.
Per indisciplina Galbiati venne prima radiato dalla MVSN in data 20 luglio 1925 e successivamente espulso dal Partito Nazionale Fascista in data 10 agosto 1925. Tuttavia, in seguito all’attentato Zaniboni, di cui fu sospettata e non provata la matrice massonica, il 14 luglio 1926 fu riammesso sia nel partito sia nella Milizia. Comandò prima la 116ª legione “Sabina” di Rieti (aprile – giugno 1927), poi la 102ª legione “Cacciatori del Tevere” di Perugia (giugno 1927 – giugno 1928), l 8ª legione “Cacciatori delle Alpi” di Varese (luglio 1928 – marzo 1931) e infine la 1ª legione “Sabauda” di Torino (aprile 1931 – giugno 1933).
Il 1º luglio 1933 fu promosso console generale e richiamato a Roma al comando del XXI gruppo battaglioni CC.NN., comando che lascerà solo nell’ottobre 1935 per partire per la campagna in Africa Orientale ed assumere il comando della 219ª legione “Vittorio Veneto”, inquadrata nella 6ª Divisione CC.NN. “Tevere”. L’unità inizierà il trasferimento in Africa il 14 dicembre 1935, per essere schierata sul fronte somalo.
Nel corso della campagna che culminerà con la proclamazione dell’Impero nel maggio successivo, Galbiate e la sua legione combatteranno ad Harrar e soprattutto a Les Addas, dove lo stesso Galbiati rimarrà gravemente ferito nel corso di due giorni di aspri combattimenti. La bandiera della legione per quei duri scontri avrà la medaglia di bronzo al V.M. e Galbiati due medaglie di argento al Valor Militare.
Dopo il rimpatrio dall’Africa, nel maggio 1937 fu nominato ispettore generale dei reparti universitari della M.V.S.N. e membro della commissione centrale di disciplina del Partito Nazionale Fascista. Il 23 dicembre 1939 fu promosso luogotenente generale della Milizia e in tale veste fu ufficiale di collegamento per la stessa prima al Gruppo d’armate Est (al confine con la Jugoslavia), poi alla VII Armata (fronte alpino) ed infine alla XI Armata (fronte greco).
Tuttavia Galbiati non si accontentava di questi comandi da retrovia e cercò insistentemente di avere un comando operativo. La sua occasione arrivò con la campagna di Grecia, nell’inverno del 1940, quando ormai il fronte era arretrato in territorio albanese. Lì giunsero, insieme a molti altri reparti inviati in fretta e furia dalla madrepatria l′8°, il 16° ed il 29º battaglione CC.NN. Con questi reparti Galbiati costituì con il Raggruppamento Galbiati che operò sul fronte greco fino all’aprile 1941 e durante queste operazioni Galbiati si guadagnò la terza medaglia d’argento al V.M. e la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia.
Il 25 maggio 1941 venne richiamato a Roma e ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini, che gli comunicò la sua nomina a Capo di stato maggiore della M.V.S.N., in sostituzione di Achille Starace, ormai caduto in disgrazia oltre alla nomina a consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Assunto il comando della Milizia, Galbiati ordinò la costituzione dei battaglioni “M”, battaglioni particolarmente addestrati per la formazione di un tipo di soldato «che rispondesse maggiormente al moderno campo di battaglia»
Nel settembre – ottobre 1942 effettuò un’ispezione sul fronte russo, dove stavano valorosamente combattendo due Raggruppamenti di battaglioni di Camicie Nere e successivamente si recò in Polonia e Germania avendo colloqui con Hitler e Goebbels. Rientrato nella capitale il 16 ottobre consegnò a Mussolini un rapporto in cui metteva chiaramente in evidenza la scarsa considerazione avuta dai tedeschi per l’apporto bellico italiano sul fronte russo.
Il 25 luglio 1943 partecipò nella veste di comandante della Milizia alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo, che ne decretò sostanzialmente la fine. Durante la lunga riunione Galbiati chiese ed ottenne la parola attorno alle una del mattino, prendendo chiaramente posizione contro l’ordine del giorno Grandi, sostenendo che non esisteva frattura fra «fascismo e nazione», quindi non sarà il ripristino dell’autorità regia a dover essere deciso, ma che l’unica autorità che deve essere riconosciuta rimaneva quella del Duce.
Finalmente alle 2.30 venne effettuata la votazione ad appello nominale, Galbiati diede voto contrario alla proposta di Grandi. Tuttavia l’ordine del giorno venne approvato e il giorno successivo, Galbiati lo trascorse a palazzo Venezia a discutere con Mussolini, sulla base dell’ipotesi che l’ordine del giorno fosse un fatto interno al P.N.F. e quindi non avesse valore costituzionale. Il mattino successivo Galbiati chiese a Mussolini l’autorizzazione ad arrestare i 19 gerarchi che avevano votato a favore di Grandi.
Probabilmente Mussolini che non aveva capito la portata della votazione del giorno prima, negò l’autorizzazione in quanto riteneva che il sovrano avrebbe continuato ad appoggiarlo, come aveva sempre fatto. Invece, quando Mussolini si presentò al re alle 17, fu arrestato e trasferito nella Caserma Podgora in Trastevere, e quindi in quella della Legione allievi Carabinieri di via Legnano in Prati.
Galbiati che si trovava nella sede del comando della Milizia, verso le 19 venne informato che Mussolini non era più primo ministro, e che Badoglio era stato incaricato di formare il nuovo governo. Intanto per strada si manifestava per la fine del regime e per la (presunta) fine della guerra e truppe del Regio Esercito si attestavano di fronte al comando della Milizia. In questa situazione Galbiati si trovò costretto ad ordinare a tutte le unità da lui dipendenti di evitare scontri con i reparti dell’Esercito, autorizzando le stesse in ogni caso a reagire alle provocazioni.
In una riunione tenuta fra le 20 e le 22, Galbiati constatò che una parte consistente degli ufficiali della Milizia propendeva ad un’azione di forza. Dopo essersi consultato con i generali Tarabini, Galamini, Corticelli e Semandini, alle 22.30 chiamò telefonicamente il sottosegretario agli interni Albini, comunicandogli che
«la Milizia rimane fedele ai suoi principi e cioè servire la Patria nel binomio Re e Duce».
A questo punto il nuovo governo seppe che non ci sarebbero stati colpi di mano organizzati da parte della Milizia. Poco prima di mezzanotte gli venne recapitato l’ordine di passare le consegne per il suo incarico al generale Armellini. Alle ore 11.15 del 26 luglio Galbiati passò in rassegna per l’ultima volta il reparto di onore della Milizia in Via Romania, tornando alla sua casa di Roma. Il comportamento tenuto in quelle ore lo sottoporrà ad aspre critiche sia da parte delle autorità della R.S.I. sia nel dopoguerra dagli ambienti neofascisti.
Dal 28 luglio al 4 agosto Galbiati fu agli arresti domiciliari, con la casa piantonata dai carabinieri, con la scusa ufficiale di “proteggerlo”. Dopo il 4 agosto poté nuovamente muoversi liberamente, fino al 23 agosto, quando, nuovamente arrestato dai carabinieri, venne rinchiuso a Forte Boccea, con gli ufficiali della Milizia e del Regio Esercito verso i quali il regime di Badoglio non aveva fiducia. Galbiati fu liberato solo il 12 settembre dai tedeschi, per essere trasferito a Frascati all’Hotel Flora insieme agli altri ufficiali e gerarchi liberati.
Quando il 17 settembre gli fu offerto di ricoprire incarichi di prestigio nella Repubblica Sociale Italiana, Galbiati declinò le stesse, preferendo tornare alla carriera militare. Il 1º ottobre, alla Rocca delle Caminate, consegnò al Duce il suo rapporto sul comportamento tenuto il 25 luglio, giustificando le sue azioni con la volontà di non iniziare una guerra civile, e considerando, come avevano più volte assicurato il re e Badoglio che “la guerra continua”. Dopo aver nuovamente rifiutato incarichi nell’ambito della RSI, fece domanda di iscrizione al Partito Fascista Repubblicano, richiesta respinta di proprio pugno da Mussolini.
Verrà chiamato in qualità di testimone al processo intentato a Verona contro i “traditori” che votarono a favore dell’Ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943, e trascorse il periodo fino alla fine del conflitto senza ricoprire nessun incarico nella Repubblica Sociale. Dopo aver superato indenne gli eventi dell’aprile 1945, si stabilì a Milano. Nel 1955 querelò per diffamazione a mezzo stampa Vanni Teodorani (genero di Arnaldo Mussolini), che lo aveva accusato di codardia per i fatti del 25 luglio. Diversi ufficiali della Milizia confermarono, testimoniando nel corso del processo, che una reazione della Milizia era possibile.
Il processo si chiuse nel 1956 con l’assoluzione di Teodorani relativamente alla ricostruzione storica degli eventi del 25 luglio, ma con una pena pecuniaria per gli epiteti da lui rivolti a mezzo stampa a Galbiati. Dopo il processo Galbiati si ritirò prima a Bordighera e successivamente in una casa di riposo di Solbiate in provincia di Como, dove morì come ricordato a inizio post, nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno il 23 maggio 1982).
Per sua espressa volontà Galbiati è stato sepolto a Seborga, nella tomba di famiglia da lui stesso progettata. Prima di chiudere il post una una curiosità sul piccolissimo Comune della provincia di Imperia (conta meno di 300 abitanti) fino al 1729 era un principato abbaziale governato dall’abate dell’abbazia di Lerino, nell’isola di Sant’Onorato, di fronte a Cannes. Seborga che sorge a circa 12 chilometri da Bordighera costituiva un’enclave nella repubblica di Genova ed era molto nota per la sua zecca.
Il Principato di Seborga emise per la prima volta una propria moneta nell’anno 1666, quando i monaci di Lerino, alla ricerca di fonti di reddito alternative alle rendite agricole, da alcuni anni piuttosto scarse, decisero di esercitare uno dei diritti che competevano al Principe sovrano. Nella zecca, situata nel Palazzo dei Monaci a Seborga, cominciarono così ad essere coniati i cosiddetti luigini. Le monete recavano al dritto il busto di san Benedetto e al rovescio lo stemma ancora oggi utilizzato dall’Abbazia di Sant’Onorato di Lerins, sormontato da corona principesca. I luigini continuano ad essere coniati ancora ai giorni nostri sia in versione commemorativa che circolante.
Il 20 agosto 1996, ricorrenza di San Bernardo, Giorgio I principe di Seborga riafferma ufficialmente l’indipendenza del Principato, con il seguente proclama:
“Noi Giorgio I, Principe di Seborga per grazia di Dio e per volontà del Popolo Sovrano, per diritto e nel diritto internazionale, vigente in tutti gli Stati con costituzioni democratiche e moderne, ribadiamo e decretiamo la sovranità territoriale, giuridica, religiosa, civile, morale e materiale del Principato di Seborga“.
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